di Marco Coppo
In questi giorni mi mandano spesso un articolo di Vanity Fair dal titolo accattivante, “Fuga dal ritiro di meditazione Vipassana”, che ricorda e forse si ispira a tanti altri titoli, quali “Fuga da Alcatraz” o il fanta-catastrofico “Fuga da New York”. E’ dunque simile ad Alcatraz un ritiro di meditazione?
Il mio parere è che l’autrice coglie molto bene alcune contraddizioni e limiti che si incontrano, a volte, nei ritiri Vipassana, certamente in quello da lei frequentato. Per esempio:
- la presenza di elementi culturali disturbanti, quali l’obbligo di non allungare le gambe (dopo 10 ore a gambe incrociate se ne sentirebbe assai il bisogno, almeno ascoltando il discorso serale!);
- la scimmiottatura della posizione del loto che, nonostante l’utilizzo di incredibili quantità di cuscini, di solito causa dolori atroci;
- i discorsi registrati infarciti di termini buddisti in Pali, spesso anche datati visto che sono gli stessi da un bel po’ di anni (la polemica sulla scienza ed i Nobel trae origine proprio dalla differenza temporale e culturale intercorsa fra la registrazione ed i nostri giorni).
L’autrice è finita nella scuola di Vipassana in cui feci il primo seminario io più di 20 anni fa, e che dovetti abbandonare sì, ma successivamente, per l’estrema rigidità che li distingue: divieto di effettuare riti, incluso pregare, di praticare qualsiasi altra tecnica di qualsiasi genere, l’obbligo di fatto di sedere per terra, una certa pomposità e compiacimento che sfocia per esempio nella richiesta (l’autrice non lo sa perchè scatta se si vuole ripetere il seminario) di abiurare qualsiasi altra tecnica si pratichi, per esempio il Reiki. Quest’ultima regola mi allontanò da loro, e fu un bene perché trovai in Coleman un insegnante molto più equilibrato ed umano.
La rigidità colta dall’autrice crea in effetti facilmente un clima molto serio, privo di gioia, la sofferenza è quasi cercata con compiacimento, l’empatia si perde, l’ego fa di nuovo capolino trionfante. Messo alla porta, rientra dalla finestra sotto una veste nuova e molto più subdola.
Per questo Vipassana Contemporanea si chiama così, ed i fattori sopra esposti non sono presenti:
- la posizione per meditare è adattata alla cultura e alla persona che medita (di solito la sedia);
- discorsi dal vivo e non registrati;
- nessuna regola culturale o ingiustificata;
- nessun pregiudizio verso altre tecniche ma anzi ricerca di eventuali sinergie.
Ha fatto bene quindi la giornalista a scappare?
No, non l’ha fatto. Interrompendo il processo a metà, non ha potuto sperimentare i benefici permanenti post-corso, quali come minimo una minor reattività. Ha perso l’occasione di limitare il suo ego, ma anzi ha ceduto ad esso rafforzandolo. Ha perso un’occasione per comprendere meglio cos’è l’insegnamento di Buddha, rimanendo in stereotipi che un meditatore di Vipassana non dovrebbe certo avere, quali per es. il confondere l’accettazione con l’inazione, l’agire con il reagire. Un po’ più di fiducia le avrebbe permesso di superare i classici ostacoli che sempre si presentano (dubbio scettico, avversione…) ed uscire trasformata.
Ha scelto di fuggire, ma non dal ritiro, no, dal rischio di indebolire, finalmente, l’ego.
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